Presentare una mostra sui MURI alle Officina ADoch, in via Cervino 24, significa innanzitutto fare i conti con il luogo che la ospita.
Uno spazio sorto in Barriera di Milano, quartiere che porta già nel nome l’idea di confine, margine, soglia. Qui i muri raccontano di trasformazioni urbane, di migrazioni, di stratificazioni sociali: superfici che hanno visto passare vite, economie, speranze che diventano testimoni
L' Officina AdDoch, fondata da Enrico Fabbri nel 2018 è da sempre attenta a intrecciare relazioni tra cose, persone e luoghi. Uno studio di architettura e design dal fascino postindustriale e multidisciplinare diventa quindi il contesto naturale per una riflessione collettiva su questi temi. Il muro, protagonista della mostra, si offre come metafora concreta di ciò che lega l'individuo allo spazio urbano: protezione e prigione, identità e separazione, memoria e cancellazione.
In questo senso, MURI non è solo una collettiva di sei artisti, ma un dispositivo critico e poetico che dialoga tanto con la storia del quartiere e con la sua comunità quanto come orizzonte più ampio, universale. Le opere aprono a prospettive più ampie, capaci di interrogare questioni universali come la memoria, l’identità, i confini, il rapporto tra esseri umani e ambiente costruito. I muri diventano così specchi di tensioni sociali e politiche, ma anche luoghi di poesia, di immagini, di stratificazione e di passaggi che appartengono a tutti. Le opere presenti evocano case abbandonate, pelli di città, facciate come archivi, muri materici che custodiscono epoche, muri costruiti come gesti politici e partecipativi. Ogni artista, seppur con linguaggi diversi, apre una prospettiva sul rapporto tra luoghi e persone, tra segni individuali, intimi e memorie collettive condivise.
La mostra MURI riunisce sei artisti – Laura Berruto, Raffaella Brusaglino, Claudio Cravero, Bahar Heidarzade, Guido Pigni e Michele Rigoni – che esplorano questo tema in chiave fisica e simbolica, intrecciando linguaggi diversi: fotografia, pittura, collage, incisione, installazione. Attraverso un mosaico di opere l'open space di via Cervino si trasforma in un paesaggio di confini e passaggi, che riflette non solo sulla città contemporanea, ma sulla nostra condizione umana: sempre in bilico tra chiusura e apertura, separazione e incontro, allontanamento e vicinanza. Una condizione fragile e universale, che i muri rivelano e al tempo stesso nascondono. Uno spazio da attraversare, da ascoltare, da cogliere nelle sue poetiche sfumature che gli artisti hanno saputo raccontare con differenti linguaggi, sguardi e sensibilità.
Le fotografie di Laura Berruto nascono da uno sguardo che si muove in un pellegrinaggio silenzioso tra le vie urbane, per fermarsi su quelle tracce fragili e poetiche che abitualmente passano inosservate. La macchina fotografica, per lei, non è soltanto un linguaggio artistico ma soprattutto un mezzo di conoscenza, capace di rivelare la bellezza segreta dei muri.
Per l’artista, i muri sono corpi vivi che mutano, raccontano storie scritte, riscritte e cancellate, in una continua sovrapposizione di segni. Manifesti strappati diventano palinsesti visivi che richiamano i décollage di Mimmo Rotella; Nelle fotografie della serie Racconti muffe, crepe e graffiti trasfigurano i dettagli in composizioni autonome, collocando la sua ricerca tra fotografia urbana e pittura informale materica, con rimandi a Tàpies.
All'interno della serie Muri le crepe e le incrostazioni assumono una vera e propria dimensione scultorea:
è il caso di una fotografia in cui una fenditura del muro evoca la forma di un busto classico, rivelando come anche il degrado possa generare icone inconsapevoli. In altre opere, le doppie esposizioni intrecciano muri e alberi, natura e segno urbano, confondendo i confini tra spazio artificiale e organico. Così, i muri fotografati da Berruto si rivelano come mappe sensoriali di iconografie contemporanee, archivi inconsapevoli di tempo e memoria, che attraverso i suoi scatti, trasformano in poesia visiva.
Raffaella Brusaglino Il muro per Raffaella Brusaglino è un luogo di memoria, stratificazione e dialogo tra generazioni. Le opere della serie Mappa Mundi nascono dall'incontro tra i materiali pittorici e memorie famigliari. Le superfici delle tele con gesso, sabbia, pigmenti, ossidazioni, foglia oro e argento rievocano la preziosità dei mosaici bizantini e degli affreschi. L'uso dell'oro rimanda alla tradizione bizantina (VI-XIII secolo) in cui affreschi e mosaici erano concepiti per catturare la luce e trasformarla in esperienza contemplativa. Nelle sue tele diventa luce che trasfigura verso un tempo sospeso in cui gli inserti di frammenti dei progetti tecnici realizzati dal padre, ingegnere aeronautico assumono un valore di archeologia futurista. Mappe di città sospese tra memoria e immaginazione. Arte e tecnica si incontrano in un dialogo intimo personale, generazionale, ma universale nelle memorie condivise. La superficie diventa muro stratificato, luogo di incontro dove epoche e linguaggi diversi convivono. Sono muri che collegano, soglie che uniscono.
In mostra l'installazione Pioniera, scultura in alluminio con inserti di piccole piante: una figura femminile intenta ad osservare le erbe spontanee - "pioniere" appunto - che colonizzano terreni angusti e fanno breccia negli interstizi urbani. Queste presenze naturali, spesso inosservate o addirittura estirpate, si rivelano invece come segni di resilienza. All'interno della mostra la scultura porta con sé il messaggio del progetto più ampio da cui proviene, ma qui assume un valore metaforico e autonomo: come i muri, diventa territorio da attraversare, osservare ed ascoltare.
Claudio Cravero, nato come grafico pubblicitario e attivo nella fotografia da oltre quarant'anni è un viaggiatore per passione e volontariato. In mostra presenta fotografie, molte delle quali inedite, appartenentialla serie Fantasmi. Avviata nel 1996 e tuttora in corso, questa ricerca nasce da un interesse specifico: documentare i "luoghi svuotati dalla presenza umana ma ancora intrisi di memoria". A guidarlo è una domanda che ritorna come un'eco: Cosa resta di noi nei luoghi che lasciamo? Cravero lavora con la luce naturale, che intensifica il senso di solitudine e sospensione, come se ogni ambiente fosse fermato in un tempo senza tempo. Una luce che, come sottolinea l'artista, rimanda ai classici della pittura, punto di partenza della sua formazione visiva. Le sue inquadrature sono essenziali: pochi elementi in scena diventano tracce poetiche, superfici che conservano segni come pagine mai completamente cancellate. “Sono spazi che trattengono la memoria", afferma l'artista evocando presenze invisibili che abitano ancora quegli ambienti. I suoi scatti rimandano alle atmosfere del cinema di David Lynch e David Cronenberg. Le fotografie di Cravero trasformano i muri in testimoni silenziosi e insieme scenografie sospese: archivi di vite, palinsesti di storie individuali e collettive.
Al tempo stesso, questi muri diventano metafore di barriere interiori, distanze relazionali e di pregiudizievocando la continua tensione tra presenza e assenza, memoria e oblio.
Per Bahar Heidarzade, artista iraniana lontana dal proprio Paese dal 2008, il muro assume duplice valenza intima e politica. L'installazione Mattoni di Memoria realizzata site-specific per la mostra, prende forma come una costruzione lenta e consapevole. Il gesto di edificare richiama alla poetica già esplorata dall'artista nella performance Bani Adam, realizzata per Polo delle Arti Relazionali e Irregolari di Forme in Bilico a Palazzo Barolo, Torino nel 2021 e ispirata ai versi del poeta Saadi Shirazi sul concetto di unità e di interdipendenza umana.
La costruzione muro diventa metafora di molteplici significati: lo identifica come un organismo collettivo, una comunità formata da singoli individui ognuno con la propria unicità e fragilità, come i singoli mattoni che lo compongono. Dall'altra il muro è separazione, barriera imposta da confini geografici, culturali e politici. Bahar ricorda i singoli individui, vittime innocenti che hanno lottato per la libertà e la giustizia pagando con la vita il prezzo della loro lotta e afferma: "Questo muro è come uno scudo. Tutti i dittatori usano questo tipo di scudo per proteggersi"
L'artista invita lo spettatore a considerare il prezzo della libertà ed a non dimenticare le storie di coloro che hanno lottato per essa. Un confine che invita a essere interrogato e attraversato.
Guido Pigni è da sempre attratto dai luoghi dismessi, di cui rimangono solo tracce. Nei suoi lavori i muri non sono semplici sfondi, ma superfici di memoria e conflitto: documenti urbani, registri stratificati di segni, simboli e assenze.
Nelle incisioni così come nelle pitture, la superficie architettonica diventa palcoscenico di storie interrotte:
serrande abbassate, facciate vuote, graffiti monumentali, murales politici o religiosi. «È per me una metafora del deterioramento sociale di questi anni, della precarietà costante che ha sostituito le certezze e le sicurezze cui eravamo abituati, del senso di comunità che è venuto a mancare», afferma l’artista. Ogni muro racconta la città in cui si trova, ma anche un tempo preciso: l’eco di un’attività commerciale ormai chiusa, la traccia di un conflitto sociale, la devozione popolare, l’ironia della Street Art. Pigni fissa queste immagini utilizzando principalmente lastre di ferro dismesse, scarti di lavorazione industriale già intaccati da graffi e solchi di ruggine: superfici che diventano essi stessi memoria. Le sue opere possiedono la capacità di evocare quella sospensione silenziosa che caratterizza i luoghi dipinti da
Edward Hopper, mentre l’attenzione ai graffiti e alla Street Art lo lega alla riflessione sulla fragilità dell’immagine urbana. Con l’acquatinta Banksy was here documenta l’opera di Banksy a Napoli prima che fosse protetta da una vetrina; emblematico è anche Kreuzberg, che ritrae un celebre intervento di Blu a Berlino, successivamente cancellato. In questo modo, Pigni si fa testimone e archivista della memoria urbana, custodendo i muri come palinsesti vivi, prima che il tempo o le trasformazioni della città li cancellino o li sovrascrivino.
Per Michele Rigoni direttore creativo attivo nella comunicazione da oltre vent'anni, ricomporre immagini analogiche è un processo vitale. La sua arte si concretizza attraverso un processo duplice, uno sfondo e un primo piano. Il punto di partenza sono vecchie cartoline cartacee trovate nei mercatini, nei cassetti dimenticati. Sono cartoline che hanno viaggiato, attraversando tempo e spazi, emozioni e sentimenti. Immagini in bianco e nero di città, luoghi, abitazioni: piccole testimonianze intime, segnate da saluti scritti a mano che riportano a un tempo in cui la comunicazione era più lenta e più umana. Il secondo elemento sono le fotografie, trovate negli album di famiglie, di persone “colte in attimi di vita”. Rigoni le isola dal contesto originario e le ricompone con le cartoline, arricchendo l'insieme con interventi pittorici che aprono lo spazio, cancellano e rivelano aggiungendo una sottile eleganza estetica; sono come fotogrammi di film che non verranno mai girati ma che raccontano come il muro diventi un luogo di stratificazione,una superficie che conserva memorie di vite passate e propone nuovi racconti .“Per me il muro è una soglia: un confine tra ciò che può svanire e cioè che potrebbe diventare”, afferma Rigoni.
Tra le opere in mostra, l’installazione Periferie— stampata in grande formato e collocata direttamente sulla parete dell’Officina Adhoc — diventa parte integrante dello spazio. Lo scorcio urbano che raffigura si apre a un gesto partecipativo: il pubblico può sostare davanti all’immagine, inserirsi in essa con il proprio corpo e scattarsi una foto, condividerla oppure no, entrando così nella scena e nella nuova narrazione.
In MURI ogni opera diventa soglia: non solo ostacolo ma possibilità di attraversamento. I muri, che separano e proteggono, qui si rivelano come archivi di memoria e superfici di relazione, restituendoci l’immagine fragile e potente della nostra condizione umana.