Quando hanno puntato tutto sull’agricoltura, qualcuno ha strabuzzato gli occhi. Come si fa a cambiare la vocazione di un territorio da sempre abituato ad essere riconosciuto nel mondo per la famosa lettera 22 e Adriano Olivetti?
Eppure Ivrea ed il Canavese intero non solo l’hanno fatto, ma si sono spinti ancora più in là. Hanno deciso di valorizzare i prodotti della loro terra rendendo l’Erbaluce, il passito, le nocciole, ma anche cavolo verza e mais eccellenze conosciute a livello nazionale. Prima è arrivata la canapa, poi è stata la volta del bambù. Un'idea che, proprio come diceva lo stesso Olivetti, "apre la strada al progresso".
Il primo parco italiano naturale di bambù è a Ivrea
Un’azienda torinese, specializzata nella “green economy”, Alma Italia Spa, ha infatti realizzato a Ivrea il primo parco italiano naturale di bambù, il secondo in termini di estensione (15 ettari), con l’obiettivo di accogliere nell’arco dei prossimi tre-cinque anni, percorsi educativi legati all’ambiente volti a sensibilizzare il pubblico sui benefici economici, ambientali e rigenerativi del bambù.
Le coltivazioni verranno impiegate nel settore alimentare, cosmetico e farmaceutico ma anche in ambito tessile, edile e nel settore dell’arredamento, in sostituzione della plastica. Non solo.
Il bambù è un toccasana per l’ambiente. Grazie alle sue proprietà fitodepurative, consente di bonificare e rimineralizzare i terreni ridando nuova vita ai terreni impoveriti ed è in grado di ridurre l’effetto serra.
(Le coltivazioni di bambù a Ivrea)
Le coltivazioni di bambù, per Ivrea, potrebbero anche costituire un volano per l’economia, messa in ginocchio in questi mesi a causa dell’emergenza sanitaria causata dal Covid-19. Una piantagione di un solo ettaro ha infatti una rendita media annua realisticamente stimata tra i 22.000 e i 45.000 euro.
A spiegarlo è Antonio Villani, Presidente dell’azienda. “Quello del bambù – dichiara - è un modello di business che in Cina, Taiwan, Thailandia e Giappone è già molto diffuso e sta dando ottimi risultati perché utilizzato per la produzione in diversi settori: dalla costruzione di case fino alle pale di turbine eoliche, senza dimenticare l’ambito food non solo per i germogli, ma anche come integratore alimentare, fino al settore tessile per la realizzazione di capi di abbigliamento e accessori”. “La forte crescita dovuta alla richiesta di mercato per applicazioni di tipo industriale, gli riconoscono la definizione di ‘acciaio vegetale’, grazie alle sue caratteristiche di resistenza e durezza, che lo rendono idoneo anche all’utilizzo in ambito edilizio e tecnologico, nel campo delle energie rinnovabili”, aggiunge.
La Canapa per le cure mediche: il dibatti in Consiglio regionale
Non è la prima volta che il territorio punta su una coltivazione “alternativa”. Dagli inizi del ‘900, e fino agli anni ‘50, il Canavese è stato uno dei più grandi produttori di canapa, utilizzata principalmente per usi tessili ed edili. Non a caso la tradizione popolare vuole che il termine "Canavese" derivi proprio da "canapa".
Nel 2005, alcuni comuni del Canavese, tra cui Cuceglio, Candia Canavese, San Giorgio Canavese, Vischè e Montalenghe, cercarono di riportare in vita la coltivazione della canapa iniziando a coltivare, in via sperimentale, un ettaro ciascuno.
Nel 2017, invece, a Moncrivello, è stato organizzato il primo corso in Piemonte sull’utilizzo della canapa in campo medico: un tema che ha interessato anche i consiglieri regionali.
A denunciare il problema, in un Consiglio Regionale dello scorso luglio, era stato il capogruppo di LUV Marco Grimaldi che ha chiesto di insediare produzioni locali DOCG di canapa per garantire le cure ai malati. Nel 2015, una legge regionale aveva riconosciuto il diritto di ogni cittadino a ricevere cure a base di cannabis, ma il consigliere aveva sottolineato che nonostante questo il Piemonte dipende dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze o dall’importazione dall’estero del medicinale.
(Il consigliere Marco Grimaldi)
“La situazione è molto grave – aveva dichiarato – non possiamo spingere pazienti gravi, e i loro famigliari, a scegliere tra la cura e il sollievo dal proprio dolore e l’illegalità: per ovviare al mancato approvvigionamento di canapa medica dobbiamo spingere i cittadini a coltivarsela per conto proprio a loro rischio e pericolo o, peggio, chiedere al proprio nipote di reperirla da amici?"
“Abbiamo le competenze e la possibilità di insediare una o più produzioni locali di canapa da farmaco – aveva aggiunto -. Serve una ‘Denominazione di origine controllata e garantita’ (DOCG): da Carmagnola al Canavese possiamo tornare ad essere ad essere terra di canapa come agli inizi del ‘900, quando l’Italia coltivava quasi 100 mila ettari di quella industriale, secondo maggior produttore al mondo”.