(Adnkronos) - Se esistesse un termine capace di racchiudere il 2025 di Giorgia Meloni, sarebbe "ponte". Un ponte tra le politiche commerciali aggressive dell'amministrazione Trump e le esigenze del Vecchio Continente. Un ponte tra Africa ed Europa, nel solco del Piano Mattei. Un ponte come continua mediazione tra le richieste - e le doglianze - degli alleati di governo. Un ponte come quello di Messina, l'opera infrastrutturale simbolo dell'esecutivo, finita sotto la lente di ingrandimento della magistratura contabile. Un ponte persino come metafora politica, quando Meloni ha liquidato con ironia le manifestazioni della Cgil definendole un semplice "weekend lungo".
Nel suo terzo anno alla guida del Paese - che l'ha consacrata al vertice di uno dei governi più longevi della Repubblica - Meloni ha costruito la sua azione all'insegna della mediazione: in patria, in Europa e sull'asse transatlantico. Un anno tutt'altro che agevole, come lei stessa ha riconosciuto nel tradizionale saluto ai dipendenti di Palazzo Chigi: segnato da conflitti sanguinosi e accordi fragili che tengono accesa una tenue fiammella di pace, ma anche da tensioni commerciali, in primis i dazi imposti dal ciclone Donald, che hanno monopolizzato i dossier più urgenti finiti sulla scrivania della premier.
La stabilità della maggioranza, nonostante gli inevitabili attriti interni, è stata valutata positivamente dalle principali agenzie internazionali di rating: Moody's, Standard & Poor's e Fitch hanno richiamato in più analisi l'importanza della continuità politica, considerata elemento decisivo per la tenuta del debito pubblico e l'attrattività dei Btp. Intanto Meloni e il governo rivendicano anche spread ai minimi e indicatori economici positivi, con i dati Istat che mostrano livelli di occupazione ai massimi storici con oltre 24,2 milioni di occupati e un tasso di occupazione al 62,7 %, mentre la disoccupazione si mantiene attorno al 6%, elementi che l'esecutivo attribuisce alle proprie politiche economiche.
Il 2025 di Meloni si è aperto proprio nel segno di Trump. Il 4 gennaio, mentre l'Europa ancora rifletteva sul ritorno del tycoon alla Casa Bianca, Meloni è volata a sorpresa in Florida. Il vertice di cinque ore nella villa di Mar-a-Lago non è stato solo un gesto di cortesia. Il dossier più pressante era quello di Cecilia Sala, la giornalista italiana detenuta in Iran. Sfruttando i canali della nuova amministrazione statunitense, la premier ha ottenuto il suo rilascio, accreditandosi come interlocutrice di "The Donald". Nelle settimane successive Meloni ha partecipato all'insediamento ufficiale del repubblicano a Washington (prima volta per un capo di governo italiano) e ha avuto con lui numerosi incontri, affrontando una fitta agenda di temi: commercio, sicurezza e futuro del rapporto transatlantico.
Questo legame privilegiato - alimentato anche dai pubblici elogi di Trump - ha accompagnato l'intera stagione politica, scandita da riconoscimenti della stampa internazionale (Time le ha dedicato la copertina con il titolo "Where Giorgia Meloni is leading Europe") e da numerose missioni istituzionali. Dalla visita alla Casa Bianca del 17 aprile, in cui si è ritagliata il ruolo di mediatrice sul tema dei dazi, fino al G7 in Canada, la premier ha operato come una sorta di "traduttrice" delle istanze Maga per un'Europa spesso spiazzata dalle sortite del presidente americano. Un profilo rafforzato a maggio, quando a Palazzo Chigi ha riunito il vicepresidente Usa J.D. Vance e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, sfruttando la cornice dell'insediamento di Papa Leone XIV per tentare di ricucire il rapporto tra Washington e Bruxelles.
Sul fronte mediorientale, il 2025 ha segnato una svolta improntata al pragmatismo. Pur ribadendo il sostegno al diritto di Israele a difendersi, Meloni ha progressivamente alzato il livello delle critiche a Tel Aviv per la crisi umanitaria in corso. A settembre, dal palco delle regionali ad Ancona - dichiarazioni poi ribadite in altre occasioni - ha definito la reazione israeliana "sproporzionata", giudicando inaccettabile l'ipotesi di un'occupazione di Gaza City. Una linea di equilibrio che ha preso forma nel sostegno al piano di pace promosso dagli Stati Uniti e firmato in autunno a Sharm el Sheikh, in Egitto. Una posizione che però non ha evitato tensioni interne: il governo è stato bersaglio di contestazioni e piazze gremite in solidarietà con gli attivisti filo-palestinesi della Flotilla.
Oltre agli incontri con Trump, nel corso dell'anno la premier partecipa a vertici Nato, Consigli europei e conferenze internazionali su sicurezza, ricostruzione dell'Ucraina (ospitata dall'Italia a luglio) e dossier economici globali. Il conflitto tra Mosca e Kiev resta uno dei nodi più sensibili dell'agenda internazionale: nelle istituzioni europee Meloni continua a spingere per un fronte transatlantico compatto, ben consapevole però delle crepe aperte da una guerra lunga, costosa e sempre più impopolare. La premier si muove così tra il sostegno fermo a Kiev e la ricerca di spazi diplomatici che mantengano aperta la strada verso future trattative, una pace che, rimarca spesso, deve essere "giusta" e non imposta a scapito dell'aggredito.
Al summit Nato di giugno all'Aia, gli alleati concordano di portare le spese per la difesa al 5% del Pil entro il 2035, accogliendo le pressioni statunitensi. Un aumento delle spese militari (così come l'invio di armamenti a Kiev) che genera tensioni interne alla maggioranza, soprattutto nella Lega. All'ultimo Consiglio europeo di dicembre, Meloni conferma il sostegno all'Ucraina ma esclude l'invio di soldati italiani e ribadisce la necessità di mantenere la pressione su Mosca nel rispetto dei vincoli internazionali relativi, per esempio, alla gestione degli asset russi congelati dall'Ue.
Sul piano interno, mentre il 'cantiere' della riforma del premierato va a rilento, il governo porta a casa l'approvazione del ddl sulla separazione delle carriere: un pilastro del programma del centrodestra, destinato al voto referendario nel 2026. La riforma - contestata duramente dall'Anm e da una parte della magistratura - riaccende lo scontro tra esecutivo e toghe, un conflitto storico ravvivato dal caso Osama Almasri. La scelta di rimpatriare in Libia, lo scorso gennaio, l'ufficiale ricercato dalla Corte Penale Internazionale scatena una tempesta: l'Italia viene accusata di violare gli obblighi di cooperazione con la Cpi. L'indagine per favoreggiamento nei confronti della premier monopolizza il dibattito pubblico, alimentando la tensione tra Palazzo Chigi e la magistratura. La vicenda per Meloni si chiude con l'archiviazione da parte del Tribunale dei ministri; archiviati anche il guardasigilli Carlo Nordio, il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi e il sottosegretario Alfredo Mantovano, dopo il no della Camera all'autorizzazione a procedere.
Un altro dossier ad alta sensibilità politica è il caso Daniela Santanchè: tra inchieste e polemiche sulle società della ministra, la vicenda alimenta tensioni nel governo e malumori nella maggioranza. Meloni difende la titolare del Turismo, richiamando alla presunzione di innocenza, ma deve più volte affrontare il tema, che torna ciclicamente nel dibattito pubblico. Nonostante le pressioni e i momenti di forte incertezza, Santanchè resta al suo posto, mantenendo la guida del dicastero.
L'anno si chiude con il travagliato iter della legge di bilancio: provvedimento da oltre 22 miliardi, finanziato in parte da un discusso contributo di solidarietà richiesto agli istituti bancari. Un nodo al centro del braccio di ferro tra Lega e Forza Italia. Matteo Salvini chiede una tassa sugli extra-profitti ("il pizzicotto" evocato dal ministro dell'Economia Giorgetti), mentre Antonio Tajani si oppone a difesa del libero mercato e degli istituti di credito. Meloni interviene personalmente a metà ottobre, trasformando la "tassa" in un "contributo di solidarietà" concordato con le banche. Un compromesso che permette al leader leghista di rivendicare un successo politico e a Tajani di sostenere che non siano state introdotte nuove imposte obbligatorie. Il no della Lega al pacchetto pensioni (poi saltato) presentato dal governo nell'emendamento alla manovra porta la maggioranza sull'orlo della crisi. L'emergenza, però, rientra dopo l'ennesimo vertice. Con l'inquilina di Palazzo Chigi che ancora una volta vesti i panni della mediatrice.
Il 2025, dunque, ha rappresentato un banco di prova per l'assetto politico del governo Meloni. Pur forte di una maggioranza numericamente solida e di sondaggi che continuano a indicare Fratelli d'Italia come perno della coalizione, la premier governa un centrodestra attraversato da rivalità interne, divergenze strategiche e continue mediazioni.
L'equilibrio dell'alleanza resta delicato, tra una Lega sospinta da pulsioni identitarie e una Forza Italia più orientata alla mediazione istituzionale. Una delle immagini simbolo dell'anno arriva da Atreju: Meloni sul palco accanto a Salvini, Tajani e Lupi, in un messaggio di unità in vista delle prossime politiche. Prima, però, c'è il referendum sulla riforma della giustizia: nonostante la premier ribadisca che il destino dell'esecutivo non dipenda dall'esito, il voto resta un test significativo per il futuro politico della leader di Fdi. Un ponte teso verso il 2027, solido nelle fondamenta ma ancora da attraversare con attenzione, passo dopo passo. (di Antonio Atte)











